mercoledì 27 maggio 2015

Le lampade dello scrittore

Con i suoi tavoli massicci e le larghe sedie in legno chiaro, il perlinato a mezza parete, le vecchie stampe e gli specchi dietro il bancone deserto, il vecchio bar ha un'aria indecisa tra la birreria tedesca, l'osteria emiliana e il circolo di paese. E' chiuso solo dallo scorso autunno, ma, non fosse per il calendario del 2014 alla parete e la foto di Papa Francesco, potrebbe essere benissimo un cimelio degli anni '50-'60 nel quale io e il mio capo entriamo con circospezione, seguendo un nostro cliente, che ha acquisito la licenza per riaprirlo a breve, e un altro signore che non ho ben capito che ci stia a fare: un architetto? un giornalista? un esperto di storia locale? Comunque sia si guarda attorno con aria degna di un Vittorio Sgarbi particolarmente maldisposto, additando muri da ridipingere e discutendo del potenziale colore di cuscini e tovaglie; ma il suo palese disgusto, che trova concordi anche gli altri due uomini, riguarda soprattutto le lampade che pendono dalle travi del salone principale ai lati di un grosso mastello di legno appeso proprio al centro.
Evito di dirlo ad alta voce, però quelle lampade sono la prima cosa che ho notato entrando e a me piacciono molto. Sono un po' grevi e non c'entrano nulla con il resto dell'arredo, d'accordo, ma sono clamorosamente liberty e sia il vaso in ceramica sia i tiranti in metallo sono uno diverso dall'altro, decorati a fiori e frutti su un fondo che varia dal verde salvia al petrolio.
Capitemi, fanno troppo D'Annunzio e Gozzano per non piacermi: sembrano uscite dal salotto di nonna Speranza, nate per illuminare pappagalli impagliati e campane di vetro.
 Non so dire se siano davvero un cimelio della Belle Epoque o siano stati rifatti in stile chissà quando da qualche artigiano per assecondare i gusti di qualcuno dei precedenti gestori o forse, addirittura, del primo proprietario, che era un famoso scrittore il quale tentò, con scarsa fortuna, di mettersi a fare anche l'oste in un paese perso nelle bassure del Parmense, a pochi chilometri da dove era nato.
Le mura del bar sono ancora dei figli, custodi gelosi della memoria del padre, tanto che l'oste teme possano mettergli i bastoni tra le ruote nel caso voglia fare cambiamenti radicali: spera di attirare i giovani eliminando un po' di vecchiume. Da una parte glielo auguro, e me lo auguro: dato che, essendo un nostro cliente, se gli affari gli vanno bene è prevedibile avrà più bisogno di noi; dall'altra, non posso non pensare che l'unica cosa che può attirare qualcuno in questo piccolo baretto perduto è proprio il fascino della memoria: non quella immobile dei cimeli che prendono polvere o dei monumenti, ma quella dei luoghi che, per chissà quale miracolo, si conservano appena in disparte dallo scorrere del tempo.
Questo posto è bellissimo proprio perché inattuale: è un'osteria da briscole e vino nero in quartini di vetro spesso, o addirittura in scodelle, non da spritz ed happy hour; e piacerà, credo, solo a chi saprà capirlo.
E non basterà aggiungere tovaglie e cuscini e mettere asettici neon al posto delle infelici lampade liberty per ridargli vita. Perché il suo spirito risplende anche in quelle lampade.
E se anche nessuno dopo di noi, che per caso abbiamo fatto in tempo a vederle, saprà che c'erano, ne sentirà, in qualche modo, la mancanza.
Mentre continuiamo a esplorare le stanze facendo progetti per il futuro, un uccellino entrato dal tubo della stufa ci svolazza disperato sulla testa per poi abbattersi per l'ennesima volta sulle grandi vetrate in cerca di una via di fuga. Quando finisce a zampe all'aria su una panca, poco lontano da un suo compagno già stecchito, l'oste lo acchiappa e lo libera in cortile: chissà se sopravvivrà alla brutta esperienza.
Esco anch'io in cortile, calpestando lastroni di cemento sconnessi tra i quali cresce un'erba umida e grassa di primavera. Faccio il giro della casa in cerca delle rose che s'affacciavano prepotenti dalle finestre dentro il locale in penombra. Le trovo a far compagnia a una siepe fiorita di ligustro: insieme fanno l'aria dolcissima. E penso che l'anima di questo luogo somiglia un poco a quell'uccellino confuso, fragile e ferito: c'è il rischio concreto che muoia e a nessuno pare che importi; ma io l'ho vista e non la potrò dimenticare: è fatta di nebbia e uomini intabarrati dai lunghi baffi neri che imprecano forte in dialetto, di preti dalle grosse scarpe infangate e sindaci con il fazzoletto rosso; ma, soprattutto, è fatta di parole: quelle con cui lo scrittore famoso ha descritto questi luoghi e che da questi luoghi vengono e ritornano e trovano casa, se c'è qualcuno disposto ad ascoltarle.
Comunque sia, una di quelle strane lampade io me la sarei portata volentieri a casa, così, giusto per salvarla dall'imminente naufragio. Le avrei trovato un angolino tra un mobile Ikea e uno ereditato dalle prozie, tra un vaso del Mercatone e una sedia imbottita della nonna: non sarebbe stata l'unica cosa incongrua e spaiata nel mio economico arredamento per metà fai da te e per metà di recupero; e, forse, non ci sarebbe stata neppure male, il che, come direbbe il suo probabile primo proprietario "è bello e istruttivo".
Saluti vintage!

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