mercoledì 13 maggio 2015

Fare storie

"We're all stories in the end. Just make it a good one!"
(Doctor Who)
“Non sei fregato veramente finché hai da parte una buona storia, e qualcuno a cui raccontarla”
(A. Baricco, Novecento)

Non amo particolarmente Baricco, ma Novecento è uno di quei libri che ogni tanto riprendo in mano e del quale, ogni tanto, assicurandomi d'esser sola in casa, mi concedo di leggere brani ad alta voce.
Ho scoperto di amare molto il Dottor Who: folle alieno millenario che viaggia nello spazio e nel tempo a bordo di un'astronave che, come un essere umano, è assai più grande all'interno. Il Dottore ha due cuori, è armato di un cacciavite col quale non uccide, ma apre porte vere e immaginarie ed è solito affermare che, nei suoi duemila anni di vita e milioni di incontri, non ha mai conosciuto nessuno che non fosse importante...
Amo le storie, ovviamente; ma questo già lo sapevate.
Riflettevo ieri notte, mentre mi aggiravo goffamente per il bagno preparandomi per andare finalmente a dormire, che ci sono due espressioni contenenti la parola "storie" che usiamo in contesti apparentemente diversissimi, ma che, a guardar bene, hanno qualcosa in comune.
Pronti per l'ennesimo delirio? Allora, via!
"Non fare storie!"
Si dice ai bambini che fanno i capricci e accampano scuse per non fare, o almeno rimandare, qualcosa di sgradito. Temo mi sia stato detto molte volte in passato, ma l'accusa mi calzerebbe a pennello anche adesso, perché è esattamente ciò che sto facendo ora...
Sarebbe un rimprovero, certo, ma, in fin dei conti riconosce ai bambini la capacità (e il diritto!), di costruirsi a suon di bugie più o meno creative, una realtà alternativa migliore di quella in cui stanno imparando faticosamente a vivere e in cui ci sono regole che, benché siano necessarie per rapportarsi agli altri in modo corretto e per crescere bene, sono sentite in qualche modo come limitanti e coercitive. E ubbidire va bene, è giusto, ma vediamo almeno di opporre un minimo di resistenza: quel tanto che basta per mantenere intatta la nostra combattiva dignità di esseri umani, piccoli finché si vuole, ma oscuramente consapevoli fin dall'inizio della nostra unicità.
Inutile dire che ero piuttosto brava ad accampare storie, soprattutto quando si trattava di andare a mangiare (ora il problema non si pone più, purtroppo...) o a dormire (in questo caso, invece, il problema persiste), e che ho dato del filo da torcere ai miei genitori e me ne dispiace.
"Ho una storia con...".
A differenza della precedente, questa frase non mi ha mai riguardato di persona, ma mi piace molto, perché credo che chi la usa senta, in qualche modo, che il suo legame con una persona ha raggiunto un livello ben diverso da "Esco/mi vedo con..." o altre espressioni del genere assai più prosaiche.
Avere una storia implica l'intenzione di raccontarsi l'un l'altro il passato e percorrere assieme il presente per costruire momenti degni di essere ricordati in futuro.
E se è vero che le storie finiscono, chiunque abbia una certa dimestichezza con i libri, sa che anche dopo la parola "fine", dopo averli riposti - con sollievo o con rammarico - su un ripiano più o meno remoto della libreria, non saremo mai più le stesse persone che eravamo prima di leggerli.
Perché la "storia" va al di là del piano fisico ed anche di quello mentale (o sentimentale?) e diventa - perdonate l'azzardo - qualcosa di esistenziale: noi siamo il nostro stesso libro sul quale scriviamo, ma altre persone hanno il diritto di aggiungerne capitoli più o meno lunghi; che questi siano scritti a matita o con l'inchiostro indelebile non importa, perché da qualche parte c'è qualcuno che sa decifrare anche i più intricati palinsesti...
Noi siamo storie, dunque: innocenti, creative e imprevedibili come le bugie dei bambini; profonde e struggenti come i racconti degli amanti; violente, dolorose, intricate e incomprensibili come "la storia", materia temibile che, in teoria, si dovrebbe imparare a scuola e servire per farci un'idea un po' più chiara del mondo in cui siamo capitati.
Già, la Storia, quella che andrebbe scritta con la s maiuscola per distinguerla dalle nostre singole storie, ma che di esse, di fatto è formata, come sapeva bene la Morante quando diede al suo romanzo più celebre un titolo talmente banale da essere vero e, dunque, indimenticabile.
Storie, come quelle che cerco di scrivere per lavoro tentando di rendere interessante un prodotto, spiegare l'uso di uno strumento scientifico o invogliare a leggere il resoconto di un convegno, invitare a partecipare a un evento, a visitare una mostra o ad andare a mangiare proprio in quel ristorante sperso in un remoto paesino di campagna.
Storie, come quelle che tento di imbastire da sei anni quassù parlando fin troppo di me, ma sapendo che c'è dietro tutto questo c'è un noi.
Chi scrive spera sempre che qualcuno legga.  Non è questione di mancanza di pudore o modestia, ma una semplice necessità.
Chi sa di essere una storia, infondo, spera la stessa cosa.
Grazie, allora, a chiunque c'è già entrato e a chi vorrà far parte dei prossimi capitoli!

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