martedì 29 ottobre 2013

L'uomo nero siamo noi

"Il nemico emise quel verso strano, agghiacciante che tutti loro facevano, poi non si mosse più. Il verso e la vista del cadavere lo fecero rabbrividire. Molti col passare del tempo s’erano abituati, non ci facevano più caso; ma lui no. Erano creature troppo schifose, con solo due braccia e due gambe, quella pelle di un bianco nauseante, e senza squame." (F. Brown, Sentinella)

Darei non so cosa per sapere che pensi, bambina dagli occhi di velluto, che mi guardi mentre parlo in una lingua a te ignota e cerco di stanarti dall'angolino nel quale ti sei rifugiata, innalzando una barricata di giocattoli.
L'unica parola di italiano che conosci è il tuo nome, che suona incongruo appiccicato alla tua personcina minuta e serissima, palesemente straniera, non tanto per l'aspetto o il vestito, quanto per lo sguardo indecifrabile e per l'inespugnabile silenzio.
Sei piovuta qui chissà come dal Pakistan e tuo fratello maggiore, che ti porta appresso malvolentieri, non si è degnato d'insegnarti nulla del mondo nel quale anche lui s'è trovato a vivere. Lui sfoga il suo senso di sradicamento e inappartenenza con un piglio prepotente da gangster in miniatura. E tu?
Tu che sei piccola, e femmina, invece, mi osservi in modo sorprendente, mentre io, accovacciata tra dinosauri e pezzi di lego, accompagno le parole con i gesti cercando di spiegarmi.
Mi aspettavo curiosità, attenzione da te, come accade di solito quando un adulto si rivolge a un bambino piccolo, sorridendogli e parlandogli. Lo so che non mi capisci, ma ai bambini spesso non importa: intuiscono dal tono e dallo sguardo molto più di quanto possono sapere e, di solito, è facile con loro entrare in relazione in qualche modo.
Invece, a sorpresa, nel fondo dei tuoi occhi leggo qualcosa che sta tra l'indifferenza e la rassegnazione: non mi respingi, ma non mi sorridi e non mi parli.
Che ti hanno detto di noi, piccolina? Che siamo creature strane e diverse, con cui è inutile, se non pericoloso creare legami? Come si dirà in pakistano "non parlare con gli sconosciuti"?
E se ti hanno insegnato così, perché l'hanno fatto? Da quali esperienze di rifiuto, miseria, dolore, è nata questa diffidenza che di sicuro ti è stata trasmessa, perché non credo sia naturale per una della tua età, che avrebbe il diritto di essere fiduciosa e spontanea con gli altri.
Invece tu preferisci continuare a giocare in silenzio con i tuoi dinosauri che, in teoria, hanno un aspetto assai meno rassicurante di me. O forse no?
Ho letto da poco in "Ebano" di Kapuscinki, che nell'Africa nera le mamme minacciano i bambini che non vogliono dormire dicendo loro che, se non fanno i bravi, arriva l'uomo bianco e se li porta via.
Han detto qualcosa del genere anche a te? Ti hanno detto che sei qui solo per sfruttare un po' la ricchezza di questo occidente sfruttatore per poi tornartene alla tua terra, al tuo vero mondo, tanto diverso e tanto lontano, e che perciò non ti serve farti degli amici?
Allora perché ti hanno dato un nome italiano? Se non è desiderio d'integrazione, forse è solo un nascondiglio dietro il quale far passare il più inosservato possibile il tuo essere straniera?
Oppure non ti hanno detto niente, perché sei solo un fagotto occhiuto tra le mani di adulti che ti portano dove vogliono, ti mettono in un cantuccio e ti dicono di star buona? Chissà, magari i tuoi hanno già deciso a chi darti in sposa. Ma, dopotutto, non è questo che mi spaventa, perché anche noi, qui, piccolina, che ci illudiamo di scegliere da soli i nostri amori, facciamo ugualmente un gran numero di danni.
Quello che m'inquieta è il sospetto che il tuo sguardo precocemente freddo e serio, che mi sento scendere in gola e poi giù, fino al cuore, sia un'accusa: siamo noi quelli da cui stare in guardia, gli incomprensibili, i malvagi. E, visto quel che accade sempre più spesso ai migranti che arrivano nel nostro Paese, bambina mia, temo tu abbia ragione.

martedì 22 ottobre 2013

In bianco

Che ci fa una zitella acida in un negozio d'abiti da sposa?
Accompagna un'amica, ovvio.
Per la prima volta in vita sua, a un'età alla quale molte coetanee il vestito da sposa l'hanno già archiviato in naftalina nei piani alti dell'armadio, varca la soglia di un mondo fatto di pizzi, tulle, sete e organze e altri tessuti di cui ignorava persino il nome e di tutte le possibili gradazioni del bianco: avorio, ghiaccio, crema...
E che fa, la zitella acida, mentre l'amica emozionata s'aggira tra armadi e appendiabiti camminando a un centimetro da terra?
S'aggira lei pure, ammirando curiosa ricami e bustini, soppesando strascichi e contando sottogonne.
Si diverte come una bambina a toccare le stoffe preziose e luccicanti; si stupisce di come, qualunque abito si provi, sia quelli che le stanno a pennello, sia quelli che non la convincono, l'amica, già di per sé alta, slanciata e dotata di un seno ragguardevole, sia bella come non l'ha mai vista: una diva di Hollywood o, meglio, come direbbe la nostra Costi, una principessa.
Dà consigli se richiesta e, talvolta, anche se non richiesta, fa battute, ride e si commuove pure un poco.
Ed è sinceramente felice, benché si muova tra oggetti che parlano di territori da lei mai attraversati, che sa benissimo non le appartengono.
Chissà, forse anche il famoso elefante entrato Dio solo sa come in cristalleria si riempie gli occhi e il cuore di meraviglia; e solo quando, senza volere, l'ha ridotta a un cumulo di frammenti inutili e taglienti se ne esce con la coda tra le gambe chiedendo mentalmente scusa per l'intrusione.

lunedì 14 ottobre 2013

L'antro dell'ombrellaio e altre botteghe magiche

Fino a qualche anno fa, a Parma, a Barriera Bixio, sotto i portici neoclassici che segnavano l'ingresso alla città ottocentesca, c'era ancora la botteguccia di un ombrellaio-cappellaio che vendeva anche bastoni e bauli e chissà quali altri residuati di un altro tempo. L'ho sempre visto vecchio, sia quando uscivo da scuola e sbirciavo dentro la vetrina dagli infissi in legno scolorito in attesa dell'autobus, sia l'ultima delle tre-quattro volte che sono entrata in negozio.
Nei giorni buoni si piazzava con una seggiolina di legno vecchia quanto lui di fronte alla bottega ad osservare il passaggio.
Commisi l'errore di portargli due ombrelli che mi avevano regalato e che, non so come, ero riuscita a rompere entrambi nel giro di quindici giorni. Ovviamente la cosa mi seccava e gli chiesi se poteva ripararli. Lui li osservò un istante con aria scettica, poi emise sentenza inappellabile: "E' roba cinese e io non l'aggiusto!". Me ne uscii un po' seccata, dando l'addio agli ombrelli nel primo cestino; ma quando ho letto che aveva chiuso m'è dispiaciuto, perché il suo negozio era diverso da tutti gli altri: aveva una storia, un carattere e vendeva oggetti fatti per durare a lungo ed essere riparati.
Fino allo scorso anno, nel paese dove passo le mie estati, c'era una bottegaia che, senza saperlo, aveva preso sul serio il motto di Harrods "Dallo spillo all'elefante", concentrandolo però in due anguste stanzette colme d'ogni cosa fino al soffitto: dai biscotti ai detersivi, dai salumi ai mutandoni della nonna, dai cioccolatini alle trappole per topi. Se ci capitavi di mattina aveva anche il pane fresco e qualche copia della Gazzetta. Se ci andavi di pomeriggio ti faceva il panino per la merenda e te lo allungava sporgendosi a fatica dal bancone, piccola e olivastra, proveniente da un paesino sperso dell'estremo sud e capitata in un paesino di poco meno sperso del nord. Ci ha cresciuto due figlie in quelle due stanze ed era un punto di riferimento per i ragazzini troppo giovani per andare a comprarsi il gelato o la cioccolata fino al paese più grande giù in valle e per i vecchi, che raggiungevano la bottega passin passino armati di sporta e bastone e, intanto, facevano anche due chiacchiere.
Quando ha chiuso ho avuto l'impressione che il paese fosse diventato più anonimo e inospitale: periferia estrema della città e dei suoi supermercati. E mi è spiaciuto quasi come quando hanno trasferito il prete, lasciando chiesa e canonica in balia di celebranti last-minute.
Ora che son costretta a bazzicare per il centro, infilando borghetti a caso un po' per sbaglio e un po' per curiosità, mi diverto un mondo a scovare bar e negozietti old stile nei quali si respira un'aria decisamente diversa da quella (condizionata... e condizionante?) dei centri commerciali, che comunque frequento e non contesto a priori.
A parte la storica cappelleria a due passi dal Regio, con gli scaffali di legno, odore di lana e cera e i vecchi manifesti di Borsalino, dove di tanto in tanto acquisto una coppola per papà, quando ne perde una o la rovina con un lavaggio incauto, e la caotica merceria con il bancone stinto dall'uso e torri di scatole di bottoni tra cui emergono piume di struzzo anni '30 e scampoli di finte pellicce anni '90, di recente sono incappata in un barino dall'arredamento sobrio e stagionato, e proprietari altrettanto stagionati. Ho chiesto l'inevitabile caffè e la signora, sorriso d'ordinanza, se n'è uscita con un "ma certo, tesoro, ti faccio un supercaffè! E peccato che ho la mia Faema del '61 in riparazione, se no era ancora più buono" e poi ha proseguito: "m'hanno offerto tante volte di cambiarla, ma io ho detto no: macchine così non ne fanno più al giorno d'oggi" e ha concluso orgogliosa, mano sul cuore: "La Jole morirà con la sua macchina per il caffè!". Nel frattempo era entrato il "ragazzo di bottega", forse il marito, grigio e dignitoso nel suo panciotto ricamato. E a me s'è spalancato un mondo.
A parte il fatto che Jole è il nome della memorabile barista - ex prostituta ed ex partigiana - che compare in alcuni spettacoli di Paolini e che il caffè era buono, mi son trovata ad anni luce dall'asettica nave spaziale della Nespresso, distante pochi metri, dove il caffè te lo fanno assaggiare solo se acquisti una delle loro supertecnologiche macchinette. E mi sono chiesta se, oltre al fatto non secondario che tutti abbiam poco da spendere, la crisi del commercio non sia, almeno in parte dovuta anche all'omologazione che vuole i centri storici colmi di negozi tutti uguali con commesse tutte uguali (giovani e mediamente scoglionate e impreparate, per via del lavoro precario), che vendono cose molto simili di qualità mediocre (a meno di non spendere capitali) tra cui ci illudiamo soltanto di poter scegliere.
Non credo che la Jole e il suo collega (o marito) si siano fatti i miliardi nella loro vita dietro il bancone di legno; o forse sì, ma è chiaro che, dopotutto, non è quello lo scopo per cui hanno fatto per anni e continuano a fare il loro mestiere: c'è l'orgoglio del proprio lavoro e la consapevolezza che, facendolo bene, si fa anche un servizio agli altri, non soltanto al proprio portafogli: si creano legami, punti di riferimento, si anima un paese o un angolo di città, che diventano un poco più umani.
Vi pare poco?
E comunque, lo sapete, prima o poi le ciose apriranno la loro libreria-pasticceria-centro culturale: temo fallirebbe in pochi mesi, ma sarebbe un posticino decisamente accogliente...

PS: la foto l'ho rubata al sito della libreria antiquaria "Credula postero", il cui nome da solo ha tutta la mia ammirazione.
Saluti imprenditoriali!

martedì 1 ottobre 2013

Such stuff as dreams...

"Le cose non devono essere avvenute realmente per essere vere.
Le storie e i sogni sono verità rivestite d'ombra che sopravviveranno quando i nudi fatti saranno polvere, cenere, oblio".
(N. Gaiman, Sandman)

Avere 35 anni ed essere ancora convinte che sia davvero così.
E non sapere se è triste o meraviglioso.