lunedì 30 settembre 2013

Torta di ricotta e pere di recupero (per non dire della marmellata!)

"Diffidate dei libri di cucina (anche del mio). Diffidate dei libri che trattano di quest'arte: sono la maggior parte fallaci o incomprensibili... al più al più... potrete attingere qualche nozione utile quando l’arte la conoscete". (Pellegrino Artusi)

Eccomi con un'altra delle mie ricette che, ne sono sicura, gettano nello sconforto la nostra Elis, la quale di cucina se ne intende davvero.
Chiedo scusa a lei e agli eventuali altri gourmet all'ascolto.
Succede che mi trovo in frigo una ricottina pericolosamente alle soglie della scadenza (ma, ovviamente, commestibile), un vasetto con due dita di marmellata di susine, che si chiede sconsolata quando qualcuno si deciderà a mangiarla, e delle perine stortignaccole raccolte nell'orto da papà.
Succede che è stata una domenica parecchio inconcludente e raddrizzarla con un dolce m'è parsa una buona idea.
Quindi, sulla mia solita base di pastafrolla (250 g di farina, 150 di zucchero, 100 di burro, un uovo, mezza bustina di lievito, un cucchiaio d'olio extravergine d'oliva e un pizzico di sale mescolati per bene) ho sistemato, nell'ordine:
- un velo di marmellata di susine (più o meno due cucchiai),
- uno strato di pere tagliate a fettine sottili (ne ho usate tre, ma erano davvero piccole),
- una cremina fatta con la suddetta ricottina (100 g) mescolata con un uovo e un cucchiaio di zucchero.
Poi ho infornato a 180 °C per circa 40 minuti.
Ha un suo perché...

lunedì 23 settembre 2013

Arguzia

Definizione ineccepibile della fidanzata ventottenne di un noto politico settantaseienne:
"Una badante d'alto bordo".
Non posso citarne la fonte, perché mia madre me lo ha proibito...

Trasparenza

"Dio sa come vorremmo tentare sortite liberatorie dai fortilizi sotterranei nei quali ci siamo nascosti assediati dalle nostre paure. Ma appena apriamo la botola, una tempesta di delusioni ci ricaccia dentro, condannandoci a un'interminabile crisi di fiducia. E dire che ci brucia dentro tanta voglia di trasparenza."
Don Tonino Bello

mercoledì 11 settembre 2013

Da vicino nessuno è normale

Vi giuro che quel che segue è realmente successo nell'arco di una mezz'ora in questa mattina bigia che annuncia, ahimè, l'autunno.
Pioviggina e mi avvio mogia alla fermata dell'autobus per andare al lavoro. Qui, appena uscito dal bar alle spalle della fermata, un signore sulla sessantina armato di bicicletta mi attacca una pezza lamentandosi del barista che gli ha appena rivelato di praticare lo zen e di volersi, perciò, recare sulla montagna più alta dell'Emilia-Romagna per caricarsi di energie positive. Il ciclista, però, non solo è perplesso a proposito dello zen, fin qui potrei anche capirlo, ma soprattutto è scocciato perché il barista crede di saperne più di lui di montagna e invece no, perché lui ha scritto più di mille articoli su Wikipedia circa le montagne del nostro Appennino e tenta di cominciare a descrivermele. Grazie al cielo arriva l'autobus e lo saluto cordialmente.
Sull'autobus, però, l'avventura continua: sale una signora corpulenta e leopardata, che chiede al conducente se ferma in Ghiaia, poi acquista un biglietto, si lamenta del costo e si siede, scordandosi di timbrarlo. Il conducente glielo fa notare, lei non lo sente, allora la avverto io. Tenta di infilare il biglietto al contrario. Le do istruzioni, mi ringrazia, si risiede e ricomincia a brontolare. Poi chiede quanto dura il biglietto: "Un'ora" risponde il conducente. "Ah, bene, allora quando scendo guardo che ore sono così mi so regolare". "No guardi, signora, l'ora si calcola da quando timbra il biglietto" intervengo io. "Ah...".
E non è finita. Un paio di fermate dopo sale un'altra signora: capelli bianchi legati in una coda scompigliata, impermeabile stazzonato, passo claudicante e un paio di lividi in faccia.
Anche lei chiede se il bus ferma in Ghiaia, poi chiede se da lì si può prendere non so che coincidenza. Il conducente risponde con garbo e la signora lo apostrofa con un "Che Dio la benedica", quindi anche lei tenta di timbrare il biglietto al contrario. "Dalla parte della freccia" dico rassegnata ma non stupita (anche a me capita di sbagliarmi). La signora non mi benedice, ma mi si siede accanto e comincia a lamentarsi di essere caduta dal letto stanotte cercando di accendere la luce, più di una volta, e che le fa tanto male un ginocchio.
Poiché anch'io devo smontare in Ghiaia, quando il bus arriva al semaforo che precede la fermata, ovviamente rosso, consiglio alla signora di alzarsi intanto che il mezzo è fermo (onde evitare un'altra caduta) e ne approfitto per divincolarmi. Lei, gemendo ad ogni movimento che fa, chiede di nuovo all'autista per la coincidenza che le interessa e lo ribenedice. Le dico di tenersi ben stretta prima che il bus riparta e beh, di farsi dare un'occhiata al pronto soccorso, ma lei manco mi saluta.
Ora, non so se in giro c'è tanta gente strana o sono io che li attiro.
Ho il sospetto sia più vera la seconda ipotesi. Forse anch'io ho spesso un'aria sufficientemente stranita e stropicciata che mi fa riconoscere come loro simile dalle persone a cui manca un venerdì, le quali mi si appiccicano con particolare piacere.
E sapete che c'è? La cosa un po' mi preoccupa... e un po' mi diverte. Perché ogni incontro è comunque una scoperta.
Saluti concilianti.

giovedì 5 settembre 2013

In the wind

Chi mi conosce da tempo di persona sa che a volte (raramente) riesco ad essere spigliata e chiacchierona (e anche un po' rompiballe); altre, invece, posso starmene zitta e intimidita in un angolo, proferendo poche parole mal connesse solo se costretta. E che, tra questi due estremi, ci sono molte variabili che dipendono, purtroppo, da vari fattori: come sto quel giorno, da quali pensieri sono presa, quanto mi affascinano o mi spaventano (o entrambe le cose insieme) le persone con cui ho a che fare o quanto io riesco in qualche modo a sentirmi a mio agio con loro.
Ma questo è un mio problema...
Esistono invece persone che sono quasi sempre silenziose e appaiono, perciò, a seconda dei casi, schive o burbere o anche sciocche agli occhi degli altri senza esserlo quasi mai davvero.
Con due di loro, non so perché, nelle estati di molti anni fa, sono riuscita a chiacchierare a lungo, suscitando lo stupore delle rispettive consorti. E anche il mio, beninteso. In entrambi i casi si era al mare.
Non ricordo più di cosa avessimo parlato passeggiando, forse di libri o di cinema; ma ricordo la leggera sensazione di stupore nello riuscire io, ragazzina, a scalfire non so come la corazza di silenzio di quei due uomini adulti, coetanei dei miei genitori. Ci parlammo alla pari, semplicemente, annullando per un momento le differenze di ruolo, d'età, di sesso che troppo spesso impongono paletti inutili ai rapporti tra individui.
Uno dei due era un mio parente, ed è morto qualche anno fa, l'altro un caro amico di famiglia, che se ne sta andando in questi giorni, pure se resta per lui ancora un filo di speranza. Entrambi erano, per me, pure se in modo diverso, un punto di riferimento: persone su cui sapevo di poter contare in caso di bisogno. A maggior ragione dopo aver avuto il privilegio di sbirciare, anche solo per una volta, un po' più a fondo nel loro animo.
Oggi, dunque, che mi sento, se possibile, ancora un po' più sola e più sguarnita, mi trovo a pensare che le parole che mi dissero quel giorno, e che ora non ricordo più, in realtà, sono ancora nascoste da qualche parte nella mia memoria e vivranno con me e torneranno, in qualche modo, nel caso dovessi averne bisogno.
Ne sono ancor più convinta dopo che, ieri, ho scoperto da dove è spuntato il curioso particolare di un sogno fatto qualche mese fa: l'avevo letto in un libro e poi, in apparenza, dimenticato. Ritrovandolo tra le pagine mi è venuta in mente una bella immagine che, se non sbaglio, è di Giovannino Guareschi: le parole volano, dicevano i latini. Volano, sì, ma non si volatilizzano. Restano da qualche parte. Forse là dove restano anche tutte le risate e le lacrime.
E' per questo che, nonostante tutto, nonostante non mi dia né la forza né la consolazione di cui avrei bisogno, credo ancora che da qualche parte ci sia una Parola che non muore e che contiene in sé tutte le altre. Quelle posate e profonde che mi hanno donato un giorno due uomini taciturni e, spero, anche le mie, molto più strampalate.